11
maggio 2014

KAWAII: THE POWER OF CUTENESS

ovvero: come l'impero del sol levante abbia trovato nella "carineria" una insospettabile chiave di egemonia culturale
Posted by il 11 maggio 2014

È passato qualche anno dalla prima volta in cui mi è capitato di rendermi conto del valore economico di un attributo di design particolarmente apprezzato dal pubblico femminile, ma non solo: la cuteness, ovvero l’essere cute (pronuncia chiuuuuut). Anche se la traduzione letterale di questo aggettivo anglosassone sarebbe semplicemente “carino” ho capito presto che in quel suono è racchiuso un universo semantico molto più complesso e profondo, che nasce dalla capacità di certi oggetti, certe immagini e certe persone, di innescare in chi li guarda un incontenibile senso di tenerezza.
La foto di un bambino che ride è cute, ma puó esserlo anche una espressione dolce di un adulto; un gattino é cute, ma anche un oggetto disegnato con colori e proporzioni tali da accentuarne il richiamo al mondo infantile, e soprattutto puó esserlo un fumetto, un cartone animato, un pupazzo che ispira tenerezza.
Articoli di merchandising Kawaii

IL VALORE DARWINIANO DELLA CUTENESS

La cuteness non è certo un’invenzione contemporanea, ma al contrario un concetto che la Natura ha escogitato sin dalle origini del mondo per garantire la continuità della specie dotando i cuccioli degli animali – uomo compreso – di una serie di caratteristiche somatiche tali da aiutarli a difendersi in modo “automatico” dall’aggressività dei predatori e dei soggetti maturi in una fase in cui non dispongono ancora di altre difese (ad es. la forza fisica o l’astuzia) che non siano quelle incorporate nel proprio aspetto (come la forma degli occhi, o la proporzione del corpo), o nei suoni e negli odori che emettono. Tra gli infiniti set di caratteri che potevano funzionare in questo senso, quello che storicamente ha vinto è quello che riscontriamo ogni volta che guardiamo un bambino o un altro cucciolo, il cui aspetto scoraggia al primo sguardo ogni aggressività suscitando soltanto sentimenti di tenerezza. Il processo evolutivo darwiniano ha così selezionato, facendoli sopravvivere (e quindi giungere all’età di riprodursi perpetuando il corredo genetico contenente tali caratteristiche), soltanto i cuccioli le cui caratteristiche suscitano in chi li guarda un immediato sentimento di compassione per la loro vulnerabilità che azzera ogni intento predatorio preservandoli dalla fine cui la propria debolezza li condannerebbe.
Come per tutti i meccanismi mentali che generano emozioni e reazioni spontanee e incontrollabili, non c’è voluto molto al marketing e al design per comprendere che questo impulso prodigioso poteva essere sfruttato anche nella dinamica dei consumi, e per isolare le caratteristiche capaci di innescarlo allo scopo di infonderle nel corpo o nell’involucro di merci di ogni tipo per risvegliare questi sentimenti ancestrali di protezione e convogliarli verso proficui comportamenti di acquisto.
uno dei simboli del kawaii: il character Rilakkuma

IL FENOMENO KAWAII

Incubatrice mondiale del fenomeno che ha visto questi principi applicati al marketing è stato il Giappone dove la cuteness corrisponde infatti a un attributo largamente codificato e valorizzato nella cultura popolare, che viene solitamente indicato con il termine kawaii.
Kawaii (かわいい) è un aggettivo della lingua giapponese che può essere tradotto in italiano come “carino”, “amabile”, “adorabile”.
Il sostantivo corrispondente a questa qualità è kawaisa (可愛さ) che esprime il concetto di cuteness nel contesto della cultura nipponica, di cui è diventato un aspetto estremamente rilevante, sia dal punto di vista sociale, che economico e politico e che si estende all’entertainment, all’abbigliamento, al cibo, ai giocattoli, all’estetica personale, al comportamento fino a condizionare il modo di muoversi e atteggiarsi, la mimica e la gestualità delle persone.
Qualcosa di kawaii non deve essere soltanto “carino”, ma anche piccolo, buffo, ornato, dall’aspetto innocente, infantile, generalmente dalle tonalità pastello o colori vivaci.
Tra le numerose parole giapponesi che derivano dalla parola kawaii, una delle più emblematiche per afferrare il concetto è kawaige (可愛げ) che può essere tradotta come “fascino di un bambino innocente”, ma per quello che scopriremo nei prossimi post non sottovaluterei nemmeno la parola kawaigaru (可愛がる?) che significa “innamorarsi” o “incantarsi”.
Le merci e i personaggi kawaii, quindi, hanno fattezze bambinesche e ingenue, lineamenti graziosi, proporzioni minute ed essenziali, occhi grandi, scintillanti, teneri ed espressivi e una gran quantità di dettagli e particolari proprio come i manga e gli anime che dall’inizio degli anni ottanta hanno dato vita ad una forte sottocultura in Giappone, e non solo, fatta di modi di vestirsi, di adornarsi, di parlare, di scrivere, di comportarsi.
un bento in stile kawaii

STORIA DEL KAWAII

L’origine della passione del popolo giapponese per la cuteness si perde nella notte dei tempi: nell’anno mille la poetessa Sei Shonagon scriveva nei suoi celebri Racconti del cuscino che “tutto ció che è piccolo è carino“, mentre Tomoyuki Sugiyama, autore del libro Cool Japan, sostiene addirittura che le origini della moda kawaii si possano far risalire al periodo Edo (1603-1867) e al gusto per i piccoli oggetti stimolato dalla popolarità dei netsuke, preziosi bottoni scolpiti che permettevano di appendere alla cintura piccole scatole (inrō) che compensavano alla mancanza di tasche dei kimono, illustri antenati dei moderni ciondoli che i giapponesi – e non solo – appendono al proprio telefonino.
Ma è negli anni ’70 che il gusto nipponico per la cuteness iniziò ad assumere la forma e le linee attuali, quando la diffusione della penna a sfera a punta fine permise alle giovani teenager giapponesi di sviluppare in modo del tutto spontaneo una nuova calligrafia/ modo di scrivere, con grandi caratteri arrotondati e disseminata di piccoli dettagli leziosi: stelline, cuoricini, smiley e lettere dell’alfabeto latino che rendevano illeggibili i loro scritti al punto che furono vietati in molte scuole e demonizzati dai media che in quegli anni si occuparono largamente del fenomeno, etichettato come “anomalia calligrafica delle femmine teenager“.
L’ascesa dello stile kawaii era però ormai inarrestabile e in meno di un decennio il gradimento suscitato nei giovani da quel modo di scrivere così controverso, ma spontaneo, ripeteva esattamente sul piano del marketing lo stesso processo darwiniano di selezione che attraverso i millenni fece sopravvivere e poi riprodursi i cuccioli dotati dei tratti somatici più cute: il fatto che il mercato giapponese trovasse irresistibile quello stile, fece si che i marchi che li adottavano nella propria comunicazione aumentassero le proprie vendite, e tendessero quindi a ripetere l’esperimento, mentre riviste e fumetti iniziarono ad adottare questo stile grafico che negli anni ’80 aveva ormai completamente egemonizzato l’advertising e il packaging dei prodotti giapponesi.un poster di Jerrod Maruyama in puro stile kawaii

L’INDUSTRIA DEL KAWAII

L’estetica kawaii iniziò così ad insinuarsi in ogni interstizio della società giapponese e la sua appropriazione da parte del mondo dei consumi superò presto ogni confine. Se il prodotto non si prestava a modificare i suoi lineamenti (come nel caso del latte o di una crema) ci pensava il suo involucro, che si arricchiva di cuteness adornandosi di dettagli come quegli stessi cuoricini, fiorellini e arcobaleni che le studentesse degli anni ’70 aggiungevano alla loro calligrafia.
Pochi settori merceologici furono risparmiati da questa invasione di tenerezza: la kawaisa non si limitò a quelli più scontati, dai dolciumi alla cancelleria, ma occupò anche quelli più inattesi, come le più severe istituzioni governative, dal ministero di giustizia ai dipartimenti di polizia, senza contare tutte le 47 prefetture del paese, che fanno tuttora a gara per adottare come mascotte l’animaletto più adorabile.
il packaging kawaii di una crema idratante
I principali protagonisti del fenomeno kawaii furono però i manga (fumetti), gli anime (cartoni animati) e gli yuru-kyara (il corrispettivo del termine inglese “character”) che oltre ad aver portato un ricco contributo al PIL del paese erano giustamente visti dal governo del Giappone come fenomenali strumenti di diffusione planetaria della cultura e dei valori nipponici, né più né meno di quanto il potente macchinario hollywoodiano riuscì ad imporre sulla scena mondiale quelli statunitensi.
Aziende multinazionali come Sanrio fecero dei character kawaii e del loro merchandising il proprio core business, lanciando personaggi (mi risulta che Sanrio ne abbia sviluppati più di 400) che iniziarono rapidamente a diffondersi anche nei mercati occidentali come la celebre Hello Kitty, oggi oggetto di culto per donne di nazionalità (ed età) estremamente diverse e vera gattina dalle uova d’oro, stando ai dati forniti dal New York Times che già nel 2010 quantificava il fatturato di Hello Kitty in 5 miliardi di dollari (che per wikipedia ammontava nel 2002 a un “solo” miliardo).
cupcake kawaii con l'effige di Hello Kitty
I disegnatori giapponesi impararono a giocare sulla capacità di certi attributi fisici di conquistare al primo sguardo il proprio pubblico con l’arma della dolcezza: chi è stato bambino negli anni ’80, quando le reti televisive italiane erano le principali acquirenti mondiali dei prodotti delle case di animazione giapponese, non farà fatica a ricollegare l’estetica kawaii alla fisionomia cucciolesca di Spank o agli occhioni innocenti e luccicanti di Candy Candy, intrisi di quella particolare forma di vulnerabilità tipicamente kawaii, a metà strada tra femminilità e infantilismo, che come vedremo nei prossimi post è ormai un aspetto imprescindibile della immagine stessa della donna – anche adulta – che il Giappone ha costruito negli ultimi anni.
uno dei primi anime di successo in Italia: Candy Candy

DAI PRODOTTI ALLA PERSONA: L’ULTIMA FRONTIERA DEL KAWAII

Attraverso il modello dei personaggi protagonisti delle serie di manga e anime, l’ossessione dei giapponesi per la cuteness si estese presto alla fisionomia umana, al look, al modo di comportarsi, soprattutto per il pubblico femminile. Gli stilemi innaturali e inarrivabili dei disegnatori venivano incarnati da personaggi pubblici di successo che si ispiravano a questo stile nel look e negli atteggiamenti. Uno dei fenomeni giovanili più diffusi dagli anni 90 ad oggi in giappone sono i cosiddetti aidoru (アイドル) o idols: idoli musicali pop più o meno effimeri come Seiko Matsuda, Sugaya Risako o Kyary Pamyu Pamyu che nella loro competizione al “più kawaii del reame” umanizzano i lineamenti dei manga e degli anime ripetendone le moine e gli atteggiamenti leziosi. Gli idols hanno affrancato il passo fatale: quello da cartone animato a persona in carne ed ossa, dimostrando la plausibilità dei manga e degli anime come modello da imitare e riprodurre nei comportamenti come nel corpo stesso ed accreditandosi presso tutti gli analisti della cultura pop giapponese come principali catalizzatori della moda kawaii in Giappone.

Per rendere possibile questa trasformazione in fumetti viventi lo stile kawaii si estese così all’abbigliamento, con il successo di collezioni di indumenti che accentuavano la cuteness di chi li indossa con volant, pizzi e colori pastello, corredati da una esplosione di accessori: pelouche, fiocchi giganti, ombrellini e balocchi di ogni tipo.
Intanto, nei quartieri generali di colossi tecnologici come Yamaha, Sega e Crypton, i personaggi immaginari degli anime diventavano anche protagonisti di videogiochi e iniziano a dare le loro sembianze a nuove invenzioni tecnologiche, come gli applicativi dei rivoluzionari sintetizzatori vocali Vocaloid di cui parleremo in un prossimo post, che resero ancora più labile il confine tra umano e artificiale, tra disegno e corpo.
a group of sweet lolitas during Harajuku's Fashion Walk

GLOBALIZZAZIONE DEL FENOMENO KAWAII

Se il mercato del merchandising kawaii in Giappone era inizialmente limitato al pubblico femminile tra i 15 e i 18 anni, oggi il fenomeno ha assunto proporzioni più estese ed ha conquistato fasce di pubblico di ogni età. Una ricerca condotta da Sanrio nel 2004 ha rivelato che un terzo degli acquirenti americani ha più di 18 anni e acquista per sé. Da qui il lancio di prodotti per adulti: orologi e gioielli da decine di migliaia di euro, abiti da sposa e, nel 2007, la carta di credito “Hello Kitty Platinum Class”. Oltre alle barriere anagrafiche il kawaii ha infranto anche quelle geografiche ed ha iniziato una rapida conquista del mondo: dal successo planetario di Pokémon e Sailor Moon alle vendite stratosferiche di Hello Kitty in decine di paesi nel mondo, le prove della globalizzazione del fenomeno kawaii sono ormai innegabili.
La cuteness, nata come una moda per teenager, ha assunto il rango e le proporzioni di vero pilastro della cultura e dell’identità nazionale del Giappone.
Nobuyoshi Kurita, professore di sociologia alla Musashi University in Tokyo, afferma che “cute” è la parola magica che racchiude tutto ciò che è accettabile e desiderabile nel Giappone contemporaneo.
Da qui il fenomeno kawaii ha iniziato ad assumere anche una importante valenza politica e il governo nipponico investe nella diffusione mondiale del kawaii con cui cerca di scalfire l’egemonia culturale americana sui mercati di massa, al punto che il ministro degli esteri Hirofumi Nakasone ha nominato nel 2009 tre “ambasciatrici del Kawaii“, la modella Misako Aoki, la cantante Yu Kimura e l’attrice Shizuka Fujioka, ingaggiate per presenziare a eventi culturali esteri come rappresentanti del governo per promuovere la cultura pop giapponese all’estero.
L'immagine di Pokemon utilizzata da una compagnia aerea per personalizzare i propri velivoli

CONCLUSIONE

Giá da queste premesse credo che si colga la complessità del fenomeno kawaii e si intuiscano le sue molteplici valenze: economiche, sociali, politiche. Implicazioni talmente vaste da non poter pretendere di trattarle in modo esaustivo, ma che meritano sicuramente qualche post in più per esplorarne alcuni dei principali aspetti in cui si declina la kawaisa attraverso le storie che mi hanno più colpito tra le tante che ho scoperto affacciandomi a questo mondo:

  1. ECONOMIA: Il successo dei Characters (coming soon)
  2. MUSICA: Il fenomeno dei Vocaloids (coming soon)
  3. MODA/SOCIETA’: Le subculture fashion urbane in Giappone (coming soon)
  4. COSTUME: Il Kyara Bento (coming soon)
  5. POLITICA: La campagna elettorale dell’ex presidente Chen (coming soon)
  6. ARTE: Takashi Murakami e Yoshitomo Nara (coming soon)

La campagna dei profumi Harajuku Lovers gioca con i temi kawaii

Per saperne di più:

Francesco Catalano

Marketing manager per passione, interior designer per natura, blogger e autore per destino, vive tra un villaggio nel sud della Francia e l’Emilia Romagna. Direttore Marketing e Comunicazione di Novoceram, la più antica manifattura ceramica francese, studioso di marketing esperienziale e autore del primo libro sui Temporary Store. Accanto all’attività manageriale, svolge anche quella di interior designer nel suo studio dove applica i principi del marketing esperienziale alla progettazione di interni residenziali e commerciali. I suoi progetti hanno ottenuto numerosi premi e riconoscimenti internazionali, tra cui la prestigiosa Etoile dell’Observeur du Design.
www.francescocatalano.it

2 Responses to “KAWAII: THE POWER OF CUTENESS”

  1. silvana

    Spettacolare!! Un tuffo nel passato, per me. L’esperienza professionale da me vissuta in una multinazionale giapponese proprio negli anni ’80 trova riscontro nell’articolo. La potenza del prodotto supportata da gadget originali ed accattivanti, con un’elevata ricerca estetica, al di là del loro valore. Ricordo una specie di cotton-fiocc di legno, una specie di paletta, con un pupazzetto applicato ad un’estermità, fatto di leggerissime piume … davvero molto, molto carino

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  2. franz

    E’ semplicemente una cultura che non comprendo. Dato che queste caratteristiche estetiche sono da ascrivere a una fase dell’infanzia in cui si è più vulnerabili, la diretta conseguenza è che tutta questa società vuole essere o apparire non solo più “carina”, ma anche più vulnerabile…o no?
    Insomma, mi sembra una estremizzazione: così come ci sono paesi che amano dare di sé un’immagine “forte”, questi vogliono un’immagine “carina”, zuccherosa, e ancora una volta mi sembra ugualmente non vera.

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