“All my life, I’ve lived in houses other people built” confessa Ricky Di Portanova allo Houston Chronicle nel 1980 parlando di Villa Arabesque “This house has everything I’ve ever dreamed of”.
Affacciata sulla baia di Acapulco, Arabesque non è un’opera sottile, ma un irrefrenabile concentrato di desideri tradotti in realtà dalla caparbietà del committente, dall’intuito del progettista – l’architetto Aurelio Munoz Castillo – e, indiscutibilmente, dall’abbondante denaro che ha permesso di sostenere il progetto. Liquidare un’opera di questa visionarietà e di questa portata come un capriccio kitsch di un ereditiere sfaccendato mi pare perlomeno riduttivo.
Quando acquistò il discosceso terreno della collina di Las Brisas nel 75, Ricky fu uno dei primissimi investitori ad intuire il potenziale della zona, allora ancora vergine. Dedicò i due anni successivi a progettare la costruzione, mentre i lavori durarono 5 anni, dal 1978 al 1983, anno in cui si insediò a Villa Arabesque.
Più di 1500 operai hanno lavorato a questo sconfinato cantiere per un costo complessivo di 5 milioni di dollari, una somma con cui oggi si riuscirebbe a strappare a malapena una villetta a schiera ad Abbiategrasso, ma all’epoca era ancora un investimento fiabesco (e questo permette anche di comprendere l’enormità delle rendite del Barone citate nella seconda puntata).
Con un anticipo di alcuni decenni rispetto alla tendenza localista che oggi sta prendendo piede, la casa fu realizzata esclusivamente con materiali della regione: mentre tutte le altre case di Acapulco facevano a gara per esotismo dei marmi il Barone scelse invece, controtendenza, di attingere alle cave dello stato di Guerrero, nel sud del Messico, a cui appartiene la stessa Acapulco.
La casa non doveva essere una consueta, seppur fastosa, villa per sé e la moglie, ma piuttosto una vera e propria città dove l’ospitalità e lo svago erano religione: una discoteca per 200 persone ispirata al tema sottomarino, chiamata Poseidon, un ristorante per 60 persone, un salone piano-bar, un roof garden dalla vista mozzafiato popolato di cammelli di gesso e poltrone zoomorfe, sono solo alcune delle facilities che testimoniano la vita mondana che si svolgeva nella villa, insieme a 3 piscine, campi da tennis con spalti coperti, 5 cucine professionali e persino una funicolare per trasportare il Barone ed i suoi ospiti tra i tanti livelli della proprietà, fino alla spiaggia privata con cui Arabesque si tuffava nel mare della baia.
Imponenti cascate attraversavano tutta la proprietà accompagnando lo sviluppo verticale del terreno fino al mare, attraverso piani e piani di rocce artificiali. Interminabili terrazze circondate da candidi muri sinuosi, abbracciavano un numero di salotti all’aperto che solo la nostra lontananza dallo stile di vita della casa può far ritenere ingiustificati. Ricky richiese all’architetto Aurelio Munoz Castillo di bandire dal progetto tutti gli angoli rigidi a favore di linee curve e forme dolci, capaci con la loro rotondità di avvolgere gli ospiti e di conferire ad Arabesque un movimento continuo.
Lo stile che Enrico ed Alessandra hanno voluto imprimere alla Villa è – leur disant – Mediterraneo Moresco. Senza dubbio le arcate che oggi i turisti in visita alla baia scrutano dai traghetti che li accompagnano nei tour guidati riecheggiano qualche ricordo mediorientale, ma di certo non più di quanto l’improbabile Venetian di Las Vegas sia realmente ispirato a Venezia. Preferisco citare Molly Glentzer che in un suo suggestivo articolo dedicato ad Arabesque scrive semplicemente “the house radiated energy like a hurricane”.
Un uragano, questo si che mi pare possa dirsi il vero ed unico stile della vera e unica Casa Di Portanova.
In una casa che si proponeva come un tempio dell’ospitalità non poteva certo mancare una ricca dotazione di camere per i baroni e i loro ospiti: ad Arabesque se ne contano 26, tra suite e camere, comprese quelle del personale (o 28 secondo altre fonti) abbinate a 26 sale da bagno (secondo altre fonti “solo” 22) …e pare fossero tutte munite di bidet, sia resa grazie alle origini italiane del Barone 😉 Con questi numeri da Grand Hotel non stupisce che i 6000 metri quadri della proprietà, in buona parte edificati, mantengano anche oggi un primato immobiliare che continua a fare di Arabesque la dimora privata più importante della zona.
Nelle nove (o forse 12) suite della proprietà si riconoscono influssi diversi tra cui spicca quello dell’artista messicano (ma di fiorentini natali) Pedro Friedeberg. Oggi 76 enne, noto in tutto il mondo soprattutto per i suoi arredi stravaganti, come la celeberrima Hand Chair, Friedeberg si avvicina nel 1960 alla corrente Dadaista, e poi al Surrealismo, di cui è oggi considerato un esponente di tutto rispetto, pur avendone rielaborato i temi in modo estremamente personale.
Rileggendo le parole con cui egli descrive la propria visione dell’arte e della casa è facile comprendere come l’incontro con Ricky fosse a dir poco ineluttabile: “Detesto il funzionalismo e rifiuto l’idea di Le Corbusier che la casa debba essere una macchina per abitare. Per me la casa deve essere invece un luogo pieno di follia, capace di farmi sempre ridere”.
Una comune allergia agli angoli dritti e una condivisa passione per Gaudi completano il quadro delle sintonie tra l’artista e il barone, che non solo disseminerà delle sue sculture moltissimi ambienti della casa (a cominciare dalla propria camera) ma affiderà a Friedeberg la decorazione di una intera suite: la fenomenale Mariposa Room, unica eccezione al total white diportanoviano che qui lascia invece il posto ai colori dell’artista e ad una invasione di sue opere ispirate al tema della farfalla, tra cui le celebri Butterfly Chair.
Il principale complice del barone nell’inventare la villa fu però l’architetto Aurelio Munoz Castillo, non nuovo a progetti che facevano parlare di sé nella zona di Acapulco, a cui si devono anche il famoso Armando’s Beach Club (dalle linee moresche simili a quelle di Arabesque), la discoteca Boccaccio, ma anche altre residenze private del jet set come la Casa Laberinto dello stilista americano Calvin Klein.
Fu Aurelio Munoz Castillo a proporre al barone di costruire dentro alla villa una discoteca privata ispirata ai fondali marini, dove spostare le sue feste continue, fino ad allora ospitate al famoso club Armando’s di Acapulco. Il Poseidon (er questo il nome del locale interno), seppur trasfigurato oggi dall’intensità dei colori sovrapposti dai nuovi proprietari, era in realtà candido come il resto della villa, ma adornato da un pavimento blu di moquette e costellato di grandi sfere metallizzate blu e argento appese a grappoli al soffitto.
La prima volta che ho scoperto Arabesque è stato nelle sensazionali immagini del libro Ricas y Famosas della fotografa messicana Daniela Rossell. Nel mettere a nudo le disarmanti contraddizioni politiche e gli spiazzanti paradossi sociali del Messico contemporaneo, Daniela Rossell aveva scattato alcune immagini anche a Villa Arabesque, sul cui sfondo i nuovi proprietari (Greg Hovas, fratello della baronessa Sandra, e sua moglie Jana Jaffe) si sono lasciati immortalare in fastosi abbigliamenti mediorientali.
La foto che però più continua a stupirmi è quella dell’esercito di domestici necessari alla gestione della villa. Nel progetto originario infatti pare fossero previste “soltanto” camere per 15 domestici, ma una riflessione più concreta portò a modificare la planimetria del complesso per accoglierne ben 40, il numero minimo necessario ad assicurare il buon funzionamento della casa.
È iniziato proprio davanti (o meglio dietro) a questa immagine paradossale il mio strano viaggio nei sogni di Ricky Di Portanova e nell’universo parallelo che egli ha voluto – e saputo – costruire ad Acapulco. Nessuno potrà mai conoscere le intime ambizioni e le vere passioni che hanno potuto innescare in un singolo uomo il desiderio di dare corpo ad un mondo artificiale così lontano dal sentire comune. Una cosa è perfettamente chiara: Arabesque non è una casa, ma il manifesto di una precisa visione della vita, e un ultimo riflesso dell’epoca d’oro in cui ha potuto svilupparsi.
Per saperne di più:
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I siti di alcune agenzie immobiliari incaricate della vendita o dell’affitto della casa: quello di Premium Estates, quello di Acapulco Bienes Raices, quello di Villa Hideaways e quello di Barbara Vaugh da cui sono tratte anche alcune delle immagini dell’articolo, che ritraggono Arabesque come è oggi (e in cui troverete anche le foto delle tante suites, ri-tematizzate dopo gli interventi di maquillage dei nuovi proprietari).
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Un articolo scritto nel 2004 da Isabella Geist per Forbes dedicato alla “Baron’s Beach Mansion”
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L’album Picasa di Marcy da cui sono tratte alcune delle foto dell’articolo
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Le foto di Panoramio di Thais Cristina, Mark Pakal e Pat J. che aiutano ad inquadrare meglio la villa nel contesto della baia
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Un articolo dedicato alle opere di Aurelio Munoz Castillo che contribuirono a costruire il glamour e il mito di Acapulco
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