C’era una volta il classico Museo, con le sue reliquie da osservare con riverenza, le sue teche inavvicinabili, i suoi custodi pronti ad immobilizzare ogni slancio di curiosità dei visitatori in cambio di un diversivo alla monotonia del proprio vigilare. Con un inizio così poco promettente non è facile resistere alla tentazione di correre subito all’ultima pagina di questa favola, e stavolta senza troppa fiducia nell’immancabile lieto fine. Eppure la storia del Museo non è mai stata così ricca di colpi di scena, e mai come in questi anni coloro che – come me – confidavano da sempre nel suo Rinascimento non sono stati delusi.
Una bella pagina di questa nuova giovinezza è quella che ho potuto leggere a Barolo, nel cuore delle Langhe, durante un weekend enogastronomico per cui prevedevo “soltanto” sublimi delizie per il palato, ma che si è rivelato anche uno straordinario concentrato di rivelazioni per la mente: prodigi architettonici di grande lungimiranza, espressioni artistiche inattese e momenti di euforica immersione nella cultura del vino, sacra vocazione di tutta la zona delle Langhe e del Monferrato.
Non posso rivelarvi tutte le scoperte di questi due giorni sensazionali (…o almeno non subito…) ma voglio almeno raccontarvi quella che forse è stata la sorpresa più inattesa. Si chiama WI.MU., acronimo di Wine Museum, ma nell’attesa di entrare più in confidenza con il suo carattere solare, potete iniziare chiamandolo semplicemente Museo del Vino di Barolo.
In effetti capisco che il suo aspetto possa mettervi un po’ soggezione: non sono molti i musei che possono permettersi di occupare un intero castello …ma appena entrati ci penserà il dionisiaco abbraccio delle sue pareti rosso vinaccia a mettervi presto a vostro agio.
La visita inizia al secondo piano per poi scendere nei piani inferiori in un itinaerario simbolico che dal sole avvicina alla terra, quasi a percorrere gli elementi chiave della mutazione dell’uva in vino. Lo spazio a disposizione per l’allestimento ha sicuramente permesso di liberare la ambizioni dei committenti (non meno dei loro cospicui fondi, testimoniati da un interminabile colophon di benvenuto disseminato di finanziatori, partners e promotori), ma sono indiscutibilmente le idee ed il senso del dettaglio di François Confino ad aver impresso al Museo la sua impronta creativa, che ha trasformato un potenziale sorgente di erudizione didascalica in una sequenza di scenografie suggestive, forse meno capace di educare del classico museo denso di nozioni, ma indubbiamente impareggiabile nell’avvicinare i visitatori al mondo iniziatico del vino.
Raccontarvi il percorso del WI.MU. sarebbe sbagliato come rivelarvi il finale di un giallo, perché la sorpresa che si prova di fronte ad ogni singolo allestimento del museo è uno degli ingredienti essenziali dell’esperienza della visita. Mi limito a dirvi che François Confino non ha posto limiti alla sua immaginazione nell’escogitare concetti espositivi differenti in ogni sala, ricorrendo a scenografie puramente evocative (come “Le radici della Vita” che trasporta il visitatore sotto il filo della terra, dove si insinuano le radici delle vigne), alternate ad accattivanti allestimenti multimediali (come “Il Banchetto dell’Armonia” dove viene ricostruita la cena con pietanze che si materializzano in piatti digitali mentre un quadro animato racconta una ipotetica riunione conviviale intorno al tavolo dei Marchesi Falletti, con ospiti del calibro di Camillo Benso di Cavour), con poche concessioni alle tradizionali esposizioni didattiche (come quella che racconta la storia del vino attraverso una traccia testuale in cui la scenografia è solo un elemento complementare), e qualche interessante situazione interattiva (come i congegni meccanici che il visitatore stesso può animare attivando leve e manovelle, oppure “Il Carosello delle stagioni” dove pedalando si può percorrere l’intero arco dell’anno per scoprire il ruolo del tempo nella creazione del vino).
Il WI.MU. è un ottimo esempio di esperienzialità, che traduce in ambito museale tutte le teorie di marketing esperienziale ed emozionale che ho conosciuto finora. In particolare l’applicazione del modello PAD di Mehrabian e Russell è talmente completa da fare del Museo un caso da manuale: gli stimoli ambientali sono stati sapientemente composti nel progetto per pilotare i tre stati emozionali studiati dal modello – Pleasure, Arousal e Dominance – e favorire atteggiamenti positivi di risposta lungo l’asse Approach-Avoidance, evidenti osservando non solo me stesso ed il gruppo di amici che era con me, ma anche tutti gli altri visitatori incontrati nel museo.
La conclusione ideale, e proficua, dell’esperienza si trova nel piano interrato, in cui il vino, dopo essere stato narrato, cantato ed evocato nei piani superiori, può essere infine degustato, nella pienenzza dei 5 sensi.
Per saperne di più:
- il sito ufficiale del WI.MU.
- il canale YouTube del WI.MU.
- Un’intervista a François Confino sul progetto
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